Giuliana Traverso
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"Giuliana Traverso, spunti per una riflessione critica" - Elisabetta Papone

Per descrivere il lavoro di Giuliana Traverso si utilizzano spesso termini legati alla soggettività e al sentimento: fotografia come espressione delle emozioni, realizzazione di sogni, rivelazione del proprio vissuto. Specularmente, il percorso creativo della fotografa si intreccia alla sua vicenda biografica: la dimensione privata e personale risulta strettamente, quasi programmaticamente, legata a quella pubblica e professionale. Quanto appena scritto viene confermato, anzi dilatato, affrontando il tema della scuola di fotografia fondata da Giuliana (“Donna Fotografa”), esperienza alla quale il suo nome è inscindibilmente connesso, e che rappresenta forse il fulcro pregnante della sua attività. Nonostante ciò, nelle righe che seguono vorremmo tentare un approccio differente, cercando, per quanto possibile, di analizzare la produzione fotografica di Giuliana, o almeno parte di essa, secondo schemi interpretativi più asettici, e inserendola nel contesto culturale e artistico della fotografia italiana degli ultimi decenni del Novecento. Potremo verificare solo in conclusione se questa strada porterà a esiti differenti rispetto a quelli raggiunti seguendo una lettura più istintiva e intuitiva, o se confermerà, eventualmente rafforzandolo, quanto suggerito da un approccio squisitamente emozionale. Giuliana Traverso inizia la sua attività a Genova, città natale, negli anni Sessanta. L’ambito fotografico nel quale si forma è quello dei circoli amatoriali, nello specifico il Gruppo Fotografico Genovese. E’ inutile sottolineare in questa sede quanto il sesto decennio del secolo scorso sia stato un periodo di grande effervescenza, sociale, politica e culturale; e quanto la cultura fotografica, anche in Italia, abbia positivamente risentito di tale fervore. Genova è solo all’apparenza defilata rispetto alle più avanzate esperienze milanesi: anche prendendo volutamente in considerazione soltanto nomi femminili, piuttosto rari all’interno del maschile mondo della fotografia, nel capoluogo ligure, alla metà del decennio, l’outsider Lisetta Carmi dà vita ai due dirompenti reportages dedicati ai portuali e ai travestiti dell’antico ghetto ebraico. Anche il mondo fotoamatariale, ormai giunto a piena maturità, è in fermento in tutta Italia: nel 1968, al convegno di Verbania, esplodono al suo interno forti e radicalizzati contrasti, che fanno emergere con prepotenza nuove istanze di impegno civile. L’anno seguente Carla Cerati, che da quel mondo proviene, realizza con Gianni Berengo Gardin il reportage “Morire di classe”, contribuendo consapevolmente alla costruzione di un movimento d’opinione d’appoggio alla coraggiosa esperienza di Franco Basaglia. La fotografia d’impegno sociale si accompagna in quegli anni, in Italia, a una grande attenzione all’individuo, e racconta concrete e individuali storie di uomini e donne, nelle quali la dimensione ideologica cerca di non prevaricare il soggetto. Non è certo un caso, dunque, che proprio nel fatidico 1968 Giuliana Traverso fondi “Donna Fotografa”, scuola che condurrà, a Genova e in seguito anche a Milano, per oltre quarant’anni, coinvolgendo migliaia di donne, fornendo loro strumenti critici e tecnici per un uso consapevole della macchina fotografia. “Donna Fotografa” si può forse considerare una risposta, a sua modo “militante”, per quanto condotta in una dimensione quasi privata, se non intima, alla prorompente richiesta di autocoscienza che proviene dal mondo femminile, in questo caso chiaramente connotato, dal punto di vista sociale, in direzione borghese: un modo alternativo, e selettivo, di cogliere un aspetto di un più diffuso malessere sociale. Su “Donna Fotografa” rimandiamo alle numerose e stimolanti considerazioni svolte in diversi punti di questo libro, anche dalla stessa Maestra. Ci limitiamo qui a osservare che sarebbe interessante – ammesso che ciò sia possibile – analizzare se e quanto, nel corso di oltre quattro decenni, la provenienza sociale delle allieve della scuola sia mutata, e di conseguenza quanto le istanze espresse agli inizi dell’esperienza siano cambiate, con la trasformazione delle condizioni economiche, sociali e culturali del paese e delle allieve; e quanto sia possibile individuare, all’interno di una vicenda formativa così lunga e complessa, un ideale fil rouge linguistico ed espressivo che in qualche misura accomuni i diversi percorsi. L’impresa è probabilmente fallimentare, anche in virtù delle personalissime premesse metodologiche alla base della scuola che, se contribuiscono a renderla un’avventura unica e non riconducibile a schemi precostituiti, rendendo difficile una valutazione critica approfondita, ne costituiscono nel contempo la cifra più caratteristica. Specularmente, le fotografie scattate in quel primo decennio di attività da Traverso non sono facili né da individuare, né da reperire: è del 1961 il famoso ritratto di Ornella Vanoni - denso, forse suo malgrado, di citazioni pittorialiste, non convenzionale, intimistico nella sgranatura e negli eccessivi contrasti chiaroscurali - che impose la fotografa all’attenzione della critica: in altro punto del libro Giuliana ne racconta la storia. Dopo pochi anni un altro ritratto, ancora di donna, impregnato di reminiscenze classiche, trasmette, nel contrasto chiaroscurale esasperato e nel rigore dell’impostazione, la drammatica dimensione esistenziale di una madre indiana. Queste prime prove dimostrano sicura e sensibile propensione “umanistica”, naturale predisposizione per la costruzione rigorosa della forma, personalità artistica forte e automa. Prima della metà degli anni Settanta è però scarsa la documentazione – catalogo o pubblicazione sistematica – che consente una ricomposizione cronologica precisa dell’operato della fotografa, e l’impressione è che gran parte del lavoro di quegli anni rimanga custodito nel contesto privato dell’autrice. Il lungo percorso di Giuliana è caratterizzato da grande autonomia, ma non indifferenza, nei confronti dei principali filoni che attraversano la fotografia italiana nei decenni successivi. Tematiche sociali, apertura verso altre culture, riflessioni sul progressivo straniamento del paesaggio urbano, concezione puramente iconica della fotografia: con il passare degli anni la produzione di Traverso si dilata, toccando, e incrociando, tutti questi nuclei. Giuliana a volte – ma non sempre - precorre, difficilmente si ripete, spesso stupisce. La sua fotografia si tiene distante dalle contingenze della cronaca e dai drammi della politica, incombenti nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta. Non crea immagini-simbolo, capaci di identificare con immediatezza un contesto storico, trasmettendone insieme le emozioni. Altre fotografe seguiranno strade differenti: per limitarci a due soli esempi, Letizia Battaglia a lungo identificherà il proprio lavoro di fotocronista con la documentazione dei crimini di mafia, Paola Agosti – più giovane – si farà consapevolmente testimone di alcune grandi vicende sociali e politiche della sua epoca. Giuliana sembra invece ritrarsi dal turbine degli eventi, e cercare un suo peculiare percorso artistico, che, se evita il politico, non è immune dal sociale, anche se non lo persegue programmaticamente. Molti suoi scatti fanno emergere la quotidiana difficoltà del vivere, percepita e trasmessa come dato esistenziale, non contingente, ma eterno e al di sopra della storia; altri lavori esprimono un lucido straniamento; in altri ancora sono protagonisti il movimento, il colore, l’armonia; il tutto, spesso, senza soluzione di continuità. Su due elementi sembra utile porre l’accento, perché sembrano entrambi particolarmente significativi nell’operare della fotografa, soprattutto negli ultimi tre decenni. Uno ha un sapore quasi filosofico, e riguarda il ruolo che il tempo assume nella sua produzione; l’altro ha, all’apparenza, un carattere squisitamente tecnico, ed è il rapporto che Giuliana, a lungo fotografa per eccellenza in bianco e nero, stabilisce con il colore. La rescissione consapevole di ogni legame tra le fotografie e una dimensione temporale oggettiva in nome di altri valori, creativi ed emozionali, è uno strumento espressivo utilizzato in più occasioni da Giuliana Traverso. Diversi progetti visivi sono costruiti “a posteriori”, inserendo nel contesto fotografie scattate in occasioni differenti, in origine non finalizzate alla destinazione scelta in ultima istanza. Così “Scatti al cuore” è una meditazione onirica sul tema della morte composta nel 2007, avvalendosi anche di immagini create oltre trent’anni prima; l’anno seguente ”L’insidiosa sostanza del guardare” presenta frammenti di viaggio sedimentati nella memoria, proposti dopo aver raschiato, dai negativi, tutto ciò che l’emulsione ha trattenuto, ma il cuore e il cervello hanno dimenticato: come se, con lo scorrere del tempo, lo strato sensibile dovesse restituire solo le schegge di realtà rimaste impresse nel profondo dell’io. Traverso lavora raramente su committenza – a differenza di molta produzione italiana, anche di altissimo livello - , ma procede spesso per progetti, o abbozzi di progetti che perfeziona durante il lavoro o, come abbiamo visto, rielabora e completa a posteriori. Questo modo di operare mi pare uno dei dati peculiari della fotografa, più che la confezione di portfolio; la poetica del frammento diventa presto estranea al suo percorso, e il singolo tassello visivo trova il suo pieno significato solo all’interno di un insieme, di un mosaico che, a sua volta, in nuovi contesti, può evolvere e parzialmente mutare. Diamo per scontato che un’immagine possa comunicare emozioni diverse a seconda della soggettività, dei tempi, del vissuto di chi la guarda: meno scontato è che possa trasformare il proprio significato, o rivelare ciò che rimaneva nascosto, anche per chi le ha dato vita. Ma è proprio questo che sembra, in certi casi, affermare la fotografa. Come dilata il rapporto con il tempo storico dello scatto, Giuliana reinventa un suo diretto rapporto con la materia fisica della fotografia, l’emulsione sensibile, considerandola uno strato atto non tanto, o non solo, a registrare, sulla base di leggi fisiche e chimiche, il mondo esterno, ma a trasformarsi sotto la manipolazione diretta delle dita dell’artista. L’emulsione impressionata rappresenta allora un punto di partenza, su cui si interviene, per creare effetti di irrealtà in un contesto realistico, o per predisporre fondali iridescenti per altri artisti. E’ questo il progetto - tra i più vivaci e sorprendenti, e ancora in parte inedito - che Giuliana abbraccia in collaborazione con il pittore genovese Attilio Mangini, per il quale, avvalendosi di precise cognizioni tecniche che le permettono di piegare le gamme cromatiche della pellicola, crea superfici viscose e colorate su cui l’artista può agire, non disegnando ma sottraendo per graffiatura materia alla superficie, dando vita a miniature incise e opalescenti. La base di questi lavori è certamente fotografica; si sarebbe tentati di precisare, casualmente o occasionalmente fotografica, se non fosse che dall’operazione traspare la totale consapevolezza e perizia tecnica dell’autrice. La fotografia si fa, consapevolmente, ancella dell’artista, fornendogli una base di lavoro condivisa e straordinaria. Nello stesso decennio (gli anni Ottanta), Traverso comincia a usare il colore, o meglio, secondo le sue parole, a tramutare il suo bianco e nero in colore, che definisce un “artificio poetico”. Una sorta di filtro, appena sfumato o fortemente caratterizzato, trasforma i luoghi: il colore diventa uno strumento espressivo che si sovrappone o si impadronisce dell’immagine, e ne condiziona significato e percezione, infondendole un alone magico o avvolgendola in tonalità impetuose; gli esiti visivi oscillano tra “realismo magico” e conclamato anti-naturalismo. Lo scopo di queste note era evidenziare alcuni tra gli elementi più significativi di un percorso artistico e professionale che dura ormai da oltre cinquant’anni, non di trarre conclusioni critiche. Anche perché, come tutti coloro che conoscono Giuliana, e che le vogliono bene –se è infine lecita anche in questa sede un’annotazione di carattere personale! –, ci auguriamo altrettanti decenni altrettanto ricchi di immagini da poter guardare e analizzare. Ma se è concesso, proviamo a sintetizzare con un aggettivo ciò che in questo momento ci appare come la caratteristica più evidente della fotografia di Giuliana Traverso: la definiremmo una fotografia accogliente. Per la versatilità dei temi e delle rese espressive, certo; ma soprattutto per la sua attitudine ad aprirsi, a recepire il mondo nella sua complessità, anche se non nella sua totalità, registrandolo in modi all’apparenza semplici e tuttavia mai ingenui, con evidente partecipazione emotiva, o ancora meditando in profondità e rielaborando quanto visto e vissuto: ma in assenza di qualunque tipo di preclusione, affettiva o ideologica. Circolarmente, si torna alle prime righe di questo breve scritto. Se è sempre difficile scindere il percorso individuale da quello professionale, per Giuliana risulta davvero impossibile: e non si può, mentre si definisce accogliente la sua fotografia, non pensare a quanto sia accogliente la sua persona.


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